Il contenuto del dibattito sulla questione Superleague è privo di un elemento fondamentale che è incredibilmente evitato. Tutti sostengono di considerare l’autonomia del sistema sportivo come una premessa non infida. Qualche sera fa, nello show di Sky TV, i soliti protagonisti hanno dialogato con un autorevole esponente della scienza economica ed esperto di basket americano, passando tutto il tempo a discutere di come sia possibile aumentare i profitti del settore. e sulla maggiore competitività economica dell’ipotetica Superlega.
Partendo pacificamente che, a differenza degli altri, i grandi club non possono fallire, e considerando come fatti secondari il valore della sfida agonistica e la relativa passione identitaria, e che i giovani (gli unici legati – ma allora perché?) mercato relativo) si annoia nel vedere i “grandi” competere con i “piccoli” (del resto i ragazzi non guarderebbero più la TV, ma solo i dispositivi elettronici).
Tutto ciò sarebbe sorprendente solo se non fosse chiaro che si tratta di menti abituate a un sistema consolidato sulla base di un grande malinteso. L’autonomia del sistema sportivo è un falso mito che giustifica la radicale assenza di democrazia in esso. Meglio ancora: la vera cleptocrazia su cui si basa. La vicenda della Superleague non ha fatto altro che mettere in luce ciò che era stato effettivamente costruito molto tempo fa. E per questo ha avuto un grande merito: suscitare attenzione sugli elementi costitutivi del calcio e dello sport in generale.
La soddisfazione di bloccare l’operazione autocratica è superficiale ed effimera. Non possiamo sentirci sollevati dalla rivolta popolare che, per una volta, è riuscita nel suo intento. Certo, si è scoperto che c’era ancora speranza per contrastare l’arroganza e la prevaricazione dei ricchi e dei potenti (emblematico per lo stendardo dei tifosi del Liverpool: “Creato dai poveri, rubato dai ricchi”). Tuttavia, è sufficiente considerare solo un po ‘più di attenzione per capire che l’operazione tentata non rivela il conflitto tra oligarchi odiosi e difensori virtuosi del popolo, ma semplicemente lo scontro tra blocchi di potere privati. Nessuno può credere che Ceferin e Infantino siano Robin Hood, e che le istituzioni che incarnano non difendano i privilegi di pochi, proprio come quelle che compongono la “sporca dozzina”.
Qualcuno ha definito la Superleague una “grande occasione persa”. Eppure lo fa nell’ottica incrollabile che vuole difendere un mercato – quello del calcio, e dello sport in generale – non naturale, ma artificiale, perché il prodotto che genera (competizione sportiva) è un bene pubblico. L’occasione sarà quindi persa solo se dalla questione non partirà una seria battaglia per affrontare le questioni reali, in linea con le seguenti domande.
Come si può parlare di sport se le regole permettono al più forte di essere sempre più forte? Che tipo di sport è uno il cui sistema organizzativo distorce le sfide senza impedire alle aziende di indebitarsi troppo, senza anticipare, e poi di fatto imporre sanzioni significative contro coloro i cui bilanci sono ovviamente in rosso? Che dire di un sistema sportivo che permetta alla Procura di conquistare figure impensabili, che non abbiamo paura di definire immorali, così come è giusto definire immorali gli introiti dei calciatori assistiti, incomprensibili a tutti tranne che alla ristrettissima cerchia dei cleptocrati e dei media compiacenti ?
A tutte le domande si può rispondere solo portando il fenomeno fuori dalle ormai intollerabili distorsioni commerciali, nel suo letto naturale, quello del diritto pubblico e del diritto. Se nello sport, forse più che in ogni altra manifestazione della vita, anche per il ruolo importantissimo che gioca nella formazione dei giovani, il merito non può essere seriamente ignorato, è molto più importante avere regole che garantiscano una competizione aperta e leale. , e tutte le pari opportunità per poter ottenere il massimo dei risultati possibili, invece di trovare quei fondi che le aziende non riescono più a trovare (solo per continuare a vivere in un lusso ingiusto e sfortunato).
Per difendere veramente le radici popolari del calcio, bisogna lottare molto per sottrarlo all’egida esclusiva del diritto privato e del commercio, per riportare il fenomeno ai suoi limiti assiologici originari. Il calcio è destinato a morire dove si tengono a tutti i costi i club più potenti che hanno drogato la competizione, e certamente no se togliamo le trappole che hanno costruito.
Ovviamente spiega anche che il ragionamento non vuole demonizzare o escludere la capacità di generare reddito. Va però riconosciuto che è necessario contenere nei limiti della volontà democratica la deriva mercantilista che si è impossessata del calcio, spogliandolo – come sempre accade quando il mercato è scarsamente regolamentato e le poche regole sono facilmente evitabili – della sua caratteristiche essenziali, della sua stessa natura. Con buona pace dei sostenitori dell’assoluta supremazia del mercato, l’unico, indiscutibile, obiettivo – e quindi l’unica speranza da coltivare – è un importante intervento legislativo degli Stati, attuato nell’ambito della disciplina comunitaria di varie leggi nazionali dovrà conformarsi.